L’iter giudiziario che coinvolge un luogotenente dei carabinieri di Castelfranco Emilia si complica sempre di più. La Procura di Modena ha richiesto il rinvio a giudizio per il militare, accusato di non aver gestito correttamente la denuncia di maltrattamenti presentata da Gabriela Trandafir. La donna, una volta tornata nel 2021 per denunciare le violenze subite, ha visto il suo caso finire in tragedia poco più di un anno dopo, quando il marito, Salvatore Montefusco, ha compiuto un omicidio a sangue freddo.
La denuncia in caserma: il primo contatto di Gabriela Trandafir
Il 13 luglio 2021, Gabriela Trandafir si presentò presso la caserma dei carabinieri, cercando di denunciare il marito per maltrattamenti. La risposta ottenuta, però, fu deludente. Stando alle ricostruzioni, il luogotenente, allora vice comandante della tenenza, cercò di persuadere la donna a intraprendere un’azione civile piuttosto che penale. Nonostante le reiterate insistenze della signora Trandafir e il suo timore per la propria incolumità e quella dei figli, la querela non venne accettata immediatamente. Il militare le comunicò di tornare nel pomeriggio per formalizzare la denuncia. Questa reazione iniziale ha scatenato diverse polemiche, sollevando interrogativi sull’adeguatezza delle procedure interne nella gestione di situazioni di violenza domestica.
Gabriela, spaventata dalla possibilità che Montefusco venisse a conoscenza della sua intenzione di denunciare, desistette dal presentarvi la querela in quel momento. La scelta di non formalizzare la denuncia alimenta interrogativi sulla capacità delle forze dell’ordine di supportare le vittime in situazioni di rischio elevato. Infatti, il giorno successivo, Gabriela si recò in una stazione dei carabinieri a Bologna per formalizzare la denuncia. Tuttavia, vederla costretta a spostarsi per evitare il marito evidenzia una grave falla nel sistema di protezione delle vittime di maltrattamenti.
L’omicidio premeditato e le conseguenze legali
A distanza di tre mesi dalla denuncia di Gabriela, il 13 ottobre del 2022, Salvatore Montefusco perpetrò un omicidio atroce. Nella loro abitazione di Cavazzona, uccise a fucilate non solo la moglie, ma anche l’ex compagna di lei, Renata, creando un caso che ha scosso l’intera comunità emiliana. Montefusco è stato successivamente condannato a 30 anni di reclusione, ma la sentenza ha sollevato polemiche per la concessione di attenuanti che sono sembrate minimizzare la gravità dell’atto.
In una vicenda dove la violenza domestica ha assunto connotazioni drammatiche, la sentenza ha portato all’attenzione pubblica la questione delle motivazioni umanamente comprensibili che possono aver spinto l’imputato ad agire. La Procura modenes, con il procuratore Luca Masini, ha sensibilmente reagito, sottolineando l’importanza di una gestione accurata e tempestiva delle denunce per evitare che tragiche conseguenze come queste possano ripetersi in futuro. La decisione di chiedere il rinvio a giudizio nei confronti del luogotenente punta a stabilire responsabilità nell’ambito delle forze dell’ordine e della loro interazione con cittadini in situazioni vulnerabili.
Critiche al protocollo dei carabinieri e ai tempi delle indagini
Oltre alle accuse di non aver accolto la prima denuncia, la Procura ha rilevato che il luogotenente non ha proceduto con tutte le indagini necessarie. La gestione delle pratiche di denuncia e la loro elaborazione sono aspetti fondamentali per la sicurezza delle vittime. L’inaffidabilità del protocollo adottato nella caserma di Castelfranco è emersa sfrontatamente negli eventi successivi all’omissione di atti d’ufficio. Il militare, nella sua veste ufficiale, aveva la responsabilità di garantire che ogni denuncia fosse seguita con la dovuta attenzione e serietà.
Questa situazione ha portato a una revisione delle procedure interne nelle forze dell’ordine per evitare che tali errori possano mettere a rischio la vita di altre persone. La denuncia tardiva da parte di Gabriela e l’atto di violenza successivo pongono interrogativi urgenti sulla capacità di prevenire e reprimere la violenza domestica. Il caso di Gabriela Trandafir diventa così un simbolo di una lotta più ampia contro le violenze che le donne devono affrontare e della necessità di una risposta più incisiva e umana da parte delle istituzioni.