A quasi sette anni dal tragico crollo del ponte Morandi, che il 14 agosto 2018 ha portato alla morte di 43 persone, Paolo Berti, ex direttore centrale operations di Autostrade per l’Italia, ha finalmente deciso di parlare. Le sue parole, cariche di emozioni, svelano l’angoscia e il senso di impotenza provati in seguito a un evento che ha segnato profondamente la vita di migliaia di persone, ma anche delle proprie responsabilità.
Il lungo silenzio e il peso del disastro
Berti ha spiegato di aver mantenuto il silenzio per rispetto alle vittime e alle loro famiglie. “Il silenzio che ho tenuto finora è stato per tutte le persone che sono scomparse. Il crollo ha provocato in me emozioni distruttive che mi hanno scosso nel profondo minando la stessa possibilità di vivere,” ha dichiarato. Le sue parole mettono in evidenza come la tragedia non abbia avuto solo conseguenze sul piano strutturale, ma anche su quello personale e psicologico dell’ex manager.
Secondo Berti, il crollo del ponte è stato un evento completamente inatteso, nonostante le responsabilità a lui attribuite. “Alla luce delle conoscenze che avevo all’epoca, il crollo è stato per me un evento totalmente inaspettato,” ha dichiarato, cercando di addurre ragioni a una situazione che ha lasciato un segno indelebile nella coscienza collettiva.
Le ragioni del dolore e la giustizia riparativa
Nel corso delle sue dichiarazioni, Berti ha anche affrontato l’argomento della giustizia. Ha rivelato che, a un certo punto, aveva espresso il desiderio di intraprendere un percorso di giustizia riparativa, ma alla fine ha deciso di desistere. Questa scelta evidenzia un conflitto interno profondo, tipico di chi si trova a dover affrontare responsabilità morali in una tragedia di tale portata.
L’ex direttore ha rimarcato come nessuno prima del crollo avesse mai avvisato della situazione critica del ponte Polcevera, affermando: “Nessuno mi ha detto che si era ‘inclinato’. Il sistema non ha dato segnali.” La sua dichiarazione sottolinea non solo la mancanza di comunicazione, ma anche un sistema che, secondo lui, non ha funzionato come avrebbe dovuto.
Critiche a progettisti e controllori
In aula, Berti si è definito più volte un “demiurgo” che interveniva quando le cose non andavano come previsto. Ha ribadito, con un certo grado di indignazione, le accuse rivolte a chi aveva costruito il viadotto. “Mi sono chiesto e mi chiedo: se quelli che nella caccia al tesoro di quel difetto sono stati definiti meschini, noi come dovremmo definirli?” ha interrogato il pubblico, lanciando un monito sui responsabili progettuali.
Particolare menzione è stata dedicata a una chat avvenuta il 25 giugno 2018, dove discuteva di misure preventive per la struttura. Berti ha spiegato che, mentre era a un convegno in America, suggerì di iniettare aria deumidificata nei cavi per rimuovere l’umidità. “Parlavo del progetto futuro,” ha giustificato, evidenziando una visione forse troppo lungimirante rispetto alla situazione critica esistente.
La testimonianza di Massimo Meliani
A inizio mattinata, Massimo Meliani, che nel 2018 era responsabile tecnico del primo tronco di Autostrade per l’Italia, ha condiviso il suo profondo rammarico. “So che qualsiasi cosa che avrei potuto fare non avrebbe scongiurato l’accaduto,” ha ammesso, interrompendosi in lacrime. Questo momento ha messo in luce il dolore e l’angoscia provati dagli ex responsabili dell’azienda, costretti a confrontarsi con le conseguenze di un disastro che ha coinvolto vite e famiglie. Meliani ha espresso il suo tormento, dichiarando che non riuscirebbe a guardare in faccia sua figlia se fosse convinto di avere responsabilità dirette nella tragedia.
L’udienza ha così portato alla luce non solo la vicenda del ponte Morandi, ma anche le profonde emozioni e i conflitti interiori degli individui coinvolti in questo tragico evento, reintroducendo un tema di grande attualità e rilevanza sociale.