La politica commerciale della seconda Amministrazione di Donald Trump si sta sviluppando in un contesto di dazi e tassi di reciprocità, elementi chiave di una strategia finalizzata a riportare gli Stati Uniti all’apice della loro potenza economica. In questo articolo si analizzeranno le implicazioni di quella che sembra essere una visione retrograda e protezionista, partendo da alcuni eventi significativi della storia economica americana per arrivare a mettere in luce le sfide attuali.
L’era dei dazi: una strategia economica rinnovata
Fin dal primo giorno di insediamento, l’allora presidente Donald Trump aveva chiarito che i dazi sarebbero stati un cardine della sua politica economica. A differenza del suo primo mandato, durante il quale i dazi erano principalmente utilizzati per contrastare la concorrenza da parte della Cina e per tutelare il mercato statunitense da quello europeo, ora questi strumenti sembrano essere integrati in una visione più ampia. L’obiettivo è riportare l’America a quella che Trump definisce la sua “età dell’oro”, un periodo che manifesta la sua massima espressione alla fine del XIX secolo, sotto la presidenza di William McKinley.
Durante quest’epoca, avvenne l’espansione dell’imperialismo americano verso l’America Latina, una rapida crescita industriale che si svolgeva senza eccessivi interventi statali e dove i sindacati lottavano per essere riconosciuti. In questo contesto di scarsa regolamentazione, il governo di McKinley imponeva tariffe alte per proteggere le industrie nazionali da quelle straniere, creando di fatto un monopolio favorevole agli imprenditori americani. Oggi, lo stesso approccio viene riproposto con un’ottica più moderna, ma nella sostanza simile: favorire la produzione interna tramite un alto livello di dazi.
Recentemente, Trump ha ventilato l’idea di un principio di reciprocità nei dazi. Questo significa che qualora un paese imponesse un balzello su un prodotto statunitense, gli Stati Uniti reagiranno con misure similari. Una strategia che si presta a soluzioni interessanti e bizzarre. Se, ad esempio, un paese come la Nuova Zelanda decidesse di non applicare dazi sui prodotti caseari statunitensi, gli Stati Uniti sarebbero costretti a rispondere mantenendo la stessa apertura. Ciò comporterebbe che alleati storici come l’Unione Europea, il Giappone e la Corea del Sud siano sottoposti a quel medesimo regime tariffario previsto per gli avversari.
L’impatto delle nuove misure: scenari futuri incerti
Per comprendere appieno come queste misure saranno messe in atto, sarà necessario attendere la pubblicazione di uno studio complessivo prevista per il primo aprile. Tuttavia, ciò appare un compito complesso vista la varietà di beni coinvolti, che si aggira sulle 2 milioni e mezzo di tipologie. Proprio per questa complessità, ci si aspetta che i lobbisti cerchino di influenzare le decisioni affinché certi prodotti restino nel regime più favorevole, creando così una serie di trattative dietro le quinte.
Nonostante sembri un approccio caotico, questa strategia si allinea perfettamente con lo stile di governo trumpista, dove ogni attore economico è spinto a cercare il favore del presidente. Le conseguenze di questo sistema sono rilevanti, in particolare per quanto riguarda l’aumento dei prezzi sui beni di consumo, una situazione che potrebbe aggravare il già alto livello di inflazione.
Uno studio condotto dal Cato Institute ha rilevato che gli Stati Uniti applicano tasse su una gamma di beni formulando regole che risultano più severe rispetto a quelle dei loro partner commerciali. Il risultato logico sarebbe una riduzione dei dazi, ma è più probabile che questo non accada. Anzi, le industrie meno forti, con lobbisti meno capaci, si vedranno costrette a dover affrontare un regime non necessario e punitivo.
Le lezioni dal passato: un confronto con il Reciprocal Tariff Act
La proposta di Trump di introdurre misure di reciprocità nei dazi non è affatto innovativa e ricorda da vicino quelle implementate con il Reciprocal Tariff Act del 1934, un’iniziativa nata per riformare il sistema commerciale in un momento di profonda crisi economica. Quella misura, sponsorizzata dall’allora segretario di Stato Cordell Hull, si basava su una logica opposta: promuovere trattati bilaterali per abbattere dazi e favorire le relazioni commerciali. La filosofia del Reciprocal Tariff Act ha contribuito a costruire una rete di alleanze commerciali che ha caratterizzato il secondo dopoguerra e il potere dolce, o soft power, degli Stati Uniti nel mondo.
Il paradosso attuale è che tutte le politiche di Trump sembrano destinate a creare un isolamento sempre più marcato, con conseguenze che non solo mettano a rischio le alleanze, ma anche accordi commerciali pregressi come quello con Canada e Messico, denominato USMCA. La situazione si fa quindi delicata, con il rischio di tornare a un mondo in cui le relazioni economiche si deteriorano, soprattutto quando la retorica protezionista trova legittimazione in una narrativa di conflitto economico.
La prossima mossa degli Stati Uniti nel campo dei dazi e delle relazioni commerciali dovrà fare i conti non solo con il contesto interno, ma anche con un sistema internazionale che sta già cambiando e al quale gli Stati Uniti potrebbero trovarsi costretti a rispondere.