L’accesso al suicidio assistito in Italia, nonostante fosse legale dal 2019, continua a generare dibattito e difficoltà pratiche. In particolare, il caso di una donna lombarda di 51 anni, che ha deciso di recarsi in Svizzera per ottenere assistenza, mette in luce le problematiche legate all’attuazione della normativa vigente. A fronte di una richiesta inoltrata alla ASL, i ritardi e la mancanza di risposte hanno costretto la donna a cercare soluzioni al di fuori del Paese.
La storia di Ines e le sue sofferenze
Ines, un nome di fantasia scelto per tutelarne la privacy, è affetta da quasi vent’anni da sclerosi multipla, una malattia autoimmune che produce effetti devastanti sul sistema nervoso centrale. Le sue condizioni di salute si sono aggravate, portandola a vivere sofferenze intollerabili. Nel mese di maggio, Ines ha formalizzato la sua richiesta di accedere al suicidio medicalmente assistito presso l’ASL di riferimento, ma a distanza di mesi, non ha ricevuto alcuna risposta.
Questa situazione ha spinto Ines a prendere la difficile decisione di recarsi in Svizzera per ricevere assistenza. A supportarla nella traversata ci sono stati Claudio Stellari e Matteo D’Angelo, membri dell’associazione «Soccorso Civile», che si occupa di assistere persone che desiderano terminare le proprie sofferenze. L’attuale contesto normativo italiano, reso più chiaro dalla sentenza 242 del 2019, non ha però incontrato il riscontro atteso dalle istituzioni sanitarie, alimentando così interrogativi e frustrazioni tra chi si trova in situazioni simili.
Ritardi e mancanza di risposte dall’ASL
Nonostante la richiesta di Ines fosse basata su disposizioni legali chiare, l’ASL non ha rispettato i tempi stabiliti per fornire la necessaria valutazione. Inizialmente, dopo una prima diffida legale inviata dalla donna tramite i suoi avvocati, la commissione medica dell’ASL ha effettuato due visite senza fornire riscontri concreti sulle modalità per la richiesta. Inoltre, il parere del comitato etico, che è essenziale in questi casi, non è stato ancora reso noto.
Nel tentativo di ottenere una risposta, la donna ha diffidato nuovamente l’ASL, facendo riferimento alla recente sentenza n. 135/2024 della Corte Costituzionale, la quale stabilisce che le istituzioni sanitarie devono intervenire in modo tempestivo per garantire l’iter di accesso al suicidio assistito. La risposta dell’ASL, avvenuta la scorsa settimana, ha evidenziato la trasmissione della relazione medica al comitato etico, ma per Ines, che già viveva con angustie quotidiane, questa comunicazione si è rivelata inadeguata.
La questione del suicidio assistito in Italia
La situazione di Ines non è isolata; molte altre persone si trovano a fronteggiare circuiti burocratici rallentati che ostacolano l’accesso al suicidio medicalmente assistito, nonostante la legalità di questa pratica in Italia. L’Associazione Luca Coscioni ha evidenziato la difficoltà con cui i pazienti si devono confrontare, evidenziando che molte attese possono protrarsi per mesi, tempi insostenibili per chi vive sofferenze acute.
Per affrontare questa problematica, l’associazione ha promosso la campagna «Liberi Subito», un’iniziativa di raccolta firme per una proposta di legge regionale che possa garantire percorsi chiari e definiti nell’accesso al suicidio assistito. L’obiettivo è quello di arrivare ad una risposta rapida ed efficace da parte del servizio sanitario, tutelando nel contempo le competenze locali e le necessità dei pazienti.
La vicenda di Ines offre uno spaccato della questione più ampia dell’accesso alle cure palliative e alle scelte di fine vita, sottolineando l’urgenza di migliorare e semplificare i processi normativi e burocratici, affinché non siano più i pazienti a pagare le conseguenze delle inefficienze istituzionali.