Ergastolo per i boss di Pozzuoli e Quarto: ribaltata la sentenza dalla Corte di Assise d’Appello

Ergastolo per i boss di Pozzuoli e Quarto: ribaltata la sentenza dalla Corte di Assise d’Appello

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Ergastolo per i boss di Pozzuoli e Quarto: ribaltata la sentenza dalla Corte di Assise d’Appello - Gaeta.it

La recente decisione della Corte di Assise d’Appello ha segnato un’importante svolta nel caso dei boss di Pozzuoli e Quarto, condannati all’ergastolo per un duplice omicidio risalente a 27 anni fa. La sentenza, emessa dalla V sezione, presieduta da Ginevra Abbamondi, riconferma la responsabilità di quattro figure di spicco del crimine organizzato locale. L’atteso annuncio ha sollevato discussioni sulle dinamiche della giustizia in un contesto segnato da testimonianze labili e una lunga scia di violenza.

L’iter giudiziario e le nuove testimonianze

Un percorso tortuoso nel sistema giudiziario

La storia giudiziaria di questo caso è complessa. I quattro imputati, Gennaro Longobardi, Gaetano Beneduce, Salvatore Cerrone e Nicola Palumbo, erano stati già condannati all’ergastolo sia in primo grado che in appello. Tuttavia, nel 2020, la Cassazione aveva annullato le sentenze precedenti, obbligando a un nuovo esame del caso. La motivazione principale della Cassazione risiedeva nella debolezza delle testimonianze fornite dai collaboratori di giustizia.

Nei mesi seguenti, la Procura Generale ha riaperto il dossier, affidandosi a nuovi pentiti del clan Polverino, che hanno offerto dettagli inediti riguardo ai crimini. Giuseppe Ruggiero, noto come “Geppino Ceppa ‘e fung”, e Giuseppe Simioli hanno testimoniato di aver avuto ruoli attivi nella preparazione e nell’esecuzione del duplice omicidio, contribuendo a riaccendere le discussioni su questo caso che sembrava ormai chiuso.

Nuovi elementi a sostegno della colpevolezza

Le nuove dichiarazioni, in particolare quelle di Ruggiero, hanno fornito ulteriore chiarezza su come si sia orchestrato il delitto. Secondo le testimonianze, Ruggiero avrebbe assistito direttamente ai preparativi dell’agguato e avrebbe scortato i killer verso il Rione Toiano. Questi dettagli, uniti alla ricostruzione delle alleanze tra clan, hanno reso possibile il ripristino delle condanne.

Di fondamentale importanza è stato il ruolo della rete di intese tra il clan Polverino e i Longobardi-Beneduce, che martellavano il territorio con la loro violenza. Il clima di omertà e paura che circondava l’epoca ha rappresentato una barriera per il sistema giudiziario, portando alla necessità di una revisione delle prove e delle testimonianze.

L’agguato nel Rione Toiano

I dettagli del duplice omicidio

Il 19 giugno 1997 è una data che ha segnato la storia criminale di Pozzuoli e Quarto. Quel giorno, un furgone rubato a Gaeta, scortato da diverse auto, ha fatto irruzione nel Rione Toiano, noto per essere un’area a forte impronta mafiosa. I dettagli dell’operazione evidenziano una preparazione accurata, con un commando di almeno quattro uomini incappucciati e armati di fucili d’assalto.

La brutale esecuzione di Domenico Sebastiano, soprannominato “Mimì cap e mort”, e Raffaele Bellofiore, noto come “o biondo”, è stata eseguita con una precisione che lascia intravedere una pianificazione meticolosa da parte dei mandanti. Grazie alla presenza di un “specchiettista”, il commando ha potuto anticipare l’arrivo delle vittime.

L’eco di un delitto che ha segnato la comunità

Il duplice omicidio ha scosso profondamente la comunità locale, generando paura e ulteriore silenzio intorno alle attività mafiose. La recrudescenza della violenza ha segnato la vita dei residenti, accentuando la sensazione di impotenza di fronte a un sistema criminale radicato. Negli anni a seguire, la memoria di questi omicidi è diventata simbolo della lotta contro la mafia da parte delle forze dell’ordine e della giustizia.

La situazione attuale dei boss e le prospettive legali

Il carcere e le misure di sicurezza

Oggi, tre dei quattro boss sono incarcerati. Gaetano Beneduce è attualmente sottoposto al regime di carcere duro 41 bis presso il carcere di Spoleto, mentre Nicola Palumbo e Gennaro Longobardi scontano anch’essi pene severe: Palumbo nel carcere de L’Aquila e Longobardi a Terni, che non è soggetto a misure di isolamento massimo.

Salvatore Cerrone, il quarto condannato, è stato collocato in regime di casa lavoro nel nord-est d’Italia e stava per rientrare a Quarto. Questo scenario evidenzia le diverse situazioni legali e carcerarie dei condannati, che potrebbero influenzare i prossimi passi per i loro difensori.

Le prossime mosse delle difese

Le difese, rappresentate dall’avvocato Domenico De Rosa e dall’avvocato Luca Gili, stanno ora preparando un nuovo ricorso in Cassazione, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, che saranno pubblicate tra 60 giorni. Questa fase rappresenta un nuovo capitolo nella lotta legale di questi boss, che, nonostante gli sviluppi sfavorevoli, continuano a cercare un appiglio per contestare le accuse e le condanne.

La ripresa del caso e le nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia sottolineano l’importanza della memoria e della verità nei confronti di un fenomeno criminale che per anni ha infettato il tessuto sociale delle comunità locali. Il processo di giustizia, pur con i suoi alti e bassi, rimane un tassello fondamentale nella battaglia contro la mafia in tutte le sue forme.

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