La storia della bonifica pontina si lega profondamente alla migrazione delle famiglie venete, che dopo la prima guerra mondiale si spostarono al Sud alla ricerca di lavoro. Questo fenomeno ha segnato fortemente l’identità agricola e sociale della zona, con un lungo percorso di trasformazione, dal lavoro nelle paludi a piccoli proprietari terrieri. Un evento curato dall’associazione “Veneti del Lazio in Agro Pontino” ha fatto luce su questa vicenda, raccontandola anche attraverso la tradizione gastronomica dei coloni.
La forza lavoro veneta protagonista della bonifica pontina
Dopo la prima guerra mondiale, molte famiglie del Veneto, piegate dalla povertà, decisero di spostarsi verso il Sud, attratte dalla possibilità di lavoro offerta dalla bonifica della palude pontina. Questi lavoratori, stimati in circa 15.000 persone, affrontarono condizioni difficili in una zona salmastra e quasi desertica. La comunità di coloni veneti era considerata ideale dal regime, grazie al loro impegno fisico e alla resistenza alla fatica.
Struttura delle famiglie e assegnazione dei poderi
Ogni famiglia doveva garantire un minimo di forza lavoro contando quattro unità: i maschi adulti venivano calcolati come uno, le donne 0,55 e i ragazzi tra i 13 e i 17 anni 0,25. I primi convogli di coloni arrivarono alla stazione di Cisterna, visto che Latina era allora solo un progetto. Qui il direttore dell’operazione – noto come “l’angelo del destino” – assegnava un numero che corrispondeva al podere, decidendo il futuro della famiglia. Furono distribuiti quasi tremila poderi, 1.450 assegnati soltanto ai veneti provenienti soprattutto dalla provincia di Treviso, Padova, Rovigo, Vicenza, Verona e altre zone del Veneto.
Condizioni di vita e lavoro nelle nuove terre bonificate
I coloni, per vivere, ricevevano un libretto economico con cui si gestiva tutto: il lavoro, le entrate e le spese. Ogni unità lavorativa registrava un compenso di 1.200 lire. La dieta quotidiana era povera e basata soprattutto sulla polenta, offerta sette giorni su sette, con l’aggiunta di fagioli differenti durante la settimana. La cucina si arricchì lentamente grazie alle risorse locali, per esempio con la scoperta dei gamberi di fiume, che accompagnavano la polenta.
Ruoli domestici e regole di gestione
Alla vita nei campi si aggiungevano le responsabilità domestiche, soprattutto per le donne. Oltre al lavoro nei campi, dovevano preparare pasti per famiglie numerose, a volte fino a venti persone, e curare anziani e malati. Solo nel 1935, la gestione degli animali da cortile e piccoli orti fu permessa, ma ogni prodotto doveva essere contabilizzato e sottratto alle vendite ufficiali. Anche la distribuzione del latte rispondeva a precise regole: bambini sotto i 13 anni ricevevano mezzo litro al giorno, anziani e malati quantità simili su prescrizione.
Il riconoscimento ritardato della storia dei bonificatori
L’esperienza dei coloni veneti, gravata da duro lavoro e sacrifici, rimase a lungo fuori dai libri di storia e quasi nascosta. Dopo la seconda guerra mondiale, questa vicenda sembrava dimenticata, come se si volesse nascondere il contributo di chi ha trasformato quella zona. La riabilitazione arrivò gradualmente: prima con la visita del presidente Sandro Pertini in occasione del 50° anniversario della fondazione di Latina, poi con la medaglia d’argento al valore civile consegnata da Carlo Azeglio Ciampi ai bonificatori. Questo riconoscimento diede nuova dignità a quella comunità.
Iniziative culturali di memoria storica
Nel tempo sono stati realizzati documentari e iniziative culturali per ricordare questa parte di storia, come il film “Stranieri in patria” prodotto dalla Regione Veneto. L’associazione “Veneti del Lazio in Agro Pontino” organizza anche incontri con le scuole e proiezioni per tramandare ai più giovani quella vicenda non solo economica, ma anche umana e culturale.
La tradizione culinaria come memoria storica dei coloni
Un modo per mantenere vivi i ricordi e le radici dei coloni veneti in pontino è attraverso la cucina. Alla mostra agricola di Campoverde, nel padiglione della Regione Lazio, è stato presentato il “tastesal”, piatto emblematico legato al rito dell’uccisione del maiale. La preparazione ha coinvolto lo chef Massimo Spadon, di origini venete, che ha usato ingredienti tipici come il riso Vialone nano veronese Igp, la carne di maiale e il pepe.
Il tastesal come simbolo di comunità
Il tastesal racconta sia la fatica dei campi sia la comunità che si radunava intorno a un piatto semplice, ma carico di significato. Questa pietanza rappresenta un legame tangibile tra le persone e la nuova terra che avevano conquistato con la forza del proprio lavoro, mantenendo vivi usi e saperi della loro terra di origine.
L’evento di primavera a Aprilia ha ricordato un passato che continua a modellare l’identità della zona e delle famiglie venete che hanno contribuito a cambiare l’agro pontino.