Le recenti tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina hanno assunto toni sempre più accesi, culminando in una reazione decisa da parte di Pechino alle tariffe imposte dall’amministrazione Trump. La svalutazione dello yuan, operata dalla Banca Centrale Cinese, è una delle misure adottate per contrastare le politiche commerciali statunitensi. Questo articolo esplora le ragioni dietro a questa strategia economica e alza il telo sulle potenziali ripercussioni di questo conflitto internazionale.
La svalutazione dello yuan da parte della Banca Centrale Cinese
Nel contesto di un incremento delle tensioni commerciali, la Banca Centrale Cinese ha deciso di permettere un’immediata svalutazione dello yuan. Questo provvedimento ha portato a una forte discesa del valore della moneta nazionale, che ha perso l’1,2% rispetto al dollaro in un solo giorno, raggiungendo il tasso di cambio di 7,31 yuan per dollaro. L’obbiettivo è chiaro: rendere le esportazioni cinesi più competitive a livello globale, rese più appetibili per gli acquirenti stranieri a causa della svalutazione.
Una moneta meno forte significa che i beni cinesi diventano più convenienti per i consumatori stranieri, favorendo così il flusso delle esportazioni. Per la Cina, che ha basato gran parte della propria crescita economica su una robusta attività esportativa, mantenere una valuta debole può rappresentare una strategia vantaggiosa. Nonostante le critiche degli Stati Uniti riguardo a tali pratiche, Pechino sta perseguendo la propria agenda economica, anche a costo di intensificare le tensioni commerciali già esistenti.
La risposta della Cina alle nuove tariffe di Trump
Subito dopo l’annuncio dei nuovi dazi da parte di Trump, la Cina ha avviato una serie di contromisure, rendendo chiaro il proprio disaccordo. In un comunicato ufficiale, il governo cinese ha affermato che avrebbe ritorsioni ad ogni iniziativa commerciale americana. Questo porterebbe a una vera e propria guerra commerciale che potrebbe avere impatti economici significativi per entrambi i Paesi.
Pechino ha già annunciato che dal 10 aprile imporrà dazi al 34% su tutte le importazioni provenienti dagli Stati Uniti, dando una risposta diretta alle misure commerciali di Trump. La Cina ha anche portato la questione all’attenzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, cercando di legittimare la propria posizione a livello internazionale. La tensione è stata ulteriormente rincarata dalla minaccia di Trump di elevare i dazi al 50% qualora la Cina dovesse effettivamente attuare le proprie tariffe.
Le difficoltà economiche della Cina: la perdita di autonomia
È importante contestualizzare la reazione cinese all’interno di un quadro economico complesso. Negli anni precedenti, durante il primo mandato di Trump, la Cina si era già trovata a dover fronteggiare un giro di vite sulle proprie esportazioni dovuto ai dazi statunitensi. Sebbene Pechino avesse inizialmente siglato un accordo, le politiche di Biden hanno continuato a seguire una linea antagonista verso le importazioni cinesi.
In aggiunta, il rallentamento dell’economia cinese, aggravato dalla pandemia di Covid-19, ha complicato ulteriormente la situazione di Pechino. Il sorpasso previsto sull’economia americana non si è concretizzato e, al contrario, la Cina si è trovata ad affrontare una serie di difficoltà economiche senza precedenti. In questo contesto, piegarsi alle richieste di Washington sembra fuori discussione per Pechino, che preferisce adottare una postura reattiva e difensiva.
Questa crescita delle tensioni commerciali non mostra segni di alleviamento, alimentando preoccupazioni sia per l’economia globale che per le relazioni tra i due colossi economici. La Cina ha scelto di affrontare la fazione statunitense con una strategia chiara, delineando una nuova fase di sfide nel panorama economico mondiale.