Il contesto abitativo di Roma nel dopoguerra è stato caratterizzato da grandi disuguaglianze sociali e problemi abitativi che ancora risuonano nella memoria collettiva. Negli anni ’60, molte famiglie si trovavano a vivere in condizioni precarie, stipate in baracche costruite con materiali di fortuna. Un articolo dell’Unità del 1963 mette in luce una situazione estremamente difficile, in cui la burocrazia sembra ignorare il dramma quotidiano di queste famiglie, tartassate persino da imposte sulle loro abitazioni di fortuna.
Una realtà difficile: le famiglie in cerca di dignità
Negli anni del dopoguerra, diverse famiglie abbandonarono le loro abitazioni distrutte dalle bombe per trasferirsi a Roma, in cerca di opportunità di lavoro e una vita migliore. Prima di trovare una propria sistemazione, molti si adattarono a vivere in case di fortuna, realizzate con materiali di scarto, come bandoni di alluminio e lamiera. Le condizioni erano inquietanti: le abitazioni, di dimensioni minime, avevano spazi ristretti dove alloggiavano più persone, creando situazioni familiari di grande disagio.
Le baracche che si vedevano lungo il Viale dell’Acquedotto Alessandrino diventavano luogo di rifugio per operai, muratori e pensionati, costretti a vivere in spazi angusti e privi dei servizi essenziali. Sebbene il tempo avesse portato purtroppo a una fitta rete di edifici costruiti in modo inadeguato, queste famiglie cercavano comunque una vita dignitosa. La lotta per la casa si intensificò negli anni successivi, culminando con movimenti che rivendicavano diritti abitativi e opere di edilizia sociale. Fino agli anni ’70, molte baracche rimasero in piedi, segno di una precarietà che non accennava a diminuire.
Nel 1963, l’ISTAT registrava oltre tredicimila famiglie romane costrette a vivere in baracche, un numero che evidenziava la gravità della situazione. Le promesse di un futuro migliore restavano lontane mentre le famiglie cercavano di farsi sentire.
La follia della burocrazia fiscale
Il titolo dell’articolo pubblicato su l’Unità il 9 maggio 1963, “L’imposta sulla miseria“, descrive in modo eloquente la follia di un sistema che si accanisce sulle fasce più vulnerabili della popolazione. La denuncia riguardava l’invio di cartelle fiscali a circa trenta famiglie del Viale dell’Acquedotto Alessandrino, costrette a pagare un’imposta sui fabbricati, nonostante le loro misere abitazioni non potessero essere definite tali. Un’iniquità palese, in quanto queste famiglie già vivevano in condizioni disperate.
Le baracche, costruite rapidamente per far fronte a un’emergenza abitativa, erano il simbolo di un’inadeguatezza che colpiva più di chiunque altro i lavoratori, costretti a pagare tributi per strutture costruite senza alcuna licenza. Le testimonianze dei pensionati e dei lavoratori evidenziano una realtà inaccettabile: vivono con pensioni modeste e si trovano sommersi da un’imposta su quello che viene definito “fabbricato“, mentre ben altre spese per l’affitto rendono insostenibile la loro situazione.
A ogni angolo, emergeva la frustrazione nei confronti di una burocrazia che sembrava ignorare il dolore quotidiano. Le famiglie di Viale dell’Acquedotto, in modo determinato, si mobilitarono per opporsi alla decisione. Rappresentate da un consigliere comunale, si presentarono in Comune per richiedere l’abolizione di una tassa che risultava inaccettabile e totalmente ingiustificata. La loro richiesta non era quella di evitare il pagamento delle tasse, ma di avere il diritto a un’abitazione dignitosa.
Un grido di resistenza
Il grido di protesta di queste famiglie sull’ingiustizia che subivano rappresentava una lotta non solo per i propri diritti ma per il riconoscimento della loro condizione. Le parole di una donna che mostrava il proprio rifugio, un piccolo spazio angusto, evidenziano l’assurdità di una realtà dove si è costretti a pagare per un’abitazione che non può minimamente essere considerata tale. Quell’attenzione ai dettagli quotidiani, ai bisogni e alle sofferenze, diventa un invito a riflettere su quanto sia stato distante un certo modo di concepire l’abitare.
Questa storia rappresenta un omaggio non solo alla memoria di quegli abitanti del Viale dell’Acquedotto, ma anche un tributo all’impegno di chi, come il sociologo Franco Ferrarotti, ha cercato di portare alla luce il tema della marginalità urbana. Ferrarotti rappresenta quelle voci che hanno cercato di spiegare e umanizzare il dramma degli abitanti delle baraccopoli, a dimostrazione di come la lotta per una vita dignitosa continui a risuonare attraverso le generazioni.
Il ricordo delle sfide affrontate, delle conquiste e delle ingiustizie vissute dalle famiglie rimane impresso nel tessuto della città, una città che continua a confrontarsi con i propri demoni e a cercare di dare spazi di vita dignitosa a tutti i suoi abitanti.
Ultimo aggiornamento il 15 Novembre 2024 da Elisabetta Cina