A Trento, prosegue il processo di appello contro otto individui coinvolti in un’importante indagine sulla mafia, in particolare sulla presenza della ‘Ndrangheta in Trentino. Gli imputati sono accusati di associazione a delinquere di tipo mafioso e di sfruttamento del lavoro, reati emersi grazie all’operazione “Perfido”. Durante la seconda giornata di udienza, la Corte d’assise d’appello esamina approfonditamente le prove e le testimonianze raccolte nel primo grado di giudizio.
La genesi del processo: l’indagine “Perfido”
Il caso che ha portato all’attuale processo affonda le radici nell’indagine “Perfido”, una vasta operazione della magistratura che ha messo in luce le infiltrazioni criminali della ‘Ndrangheta nel settore del porfido, una risorsa mineraria fondamentale per l’economia locale. Nel corso delle indagini, è emerso che gli imprenditori vicini a questa organizzazione mafiosa sfruttavano la manodopera, in particolare lavoratori cinesi, sottoponendoli a condizioni di impiego estremamente svantaggiose e, spesso, illegali.
Lo sfruttamento del lavoro ha assunto forme preoccupanti, come il lavoro in nero e l’imposizione di orari estenuanti, con il chiaro intento di massimizzare i profitti a discapito della forza lavoro. La magistratura non ha potuto ignorare questi comportamenti tanto gravi quanto radicati, dando il via a un’attività di accertamento che ha coinvolto diverse figure professionali, dalla polizia alle associazioni sindacali. La difesa ha tentato di minare le prove, suggerendo che le accuse siano frutto di malintesi o di complotti tesi a danneggiare gli imputati.
Le figure chiave del processo
Tra gli otto imputati si distinguono nomi noti, come Giuseppe Battaglia, ritenuto dal pubblico ministero un personaggio di spicco nel sodalizio mafioso, e condannato in primo grado a dodici anni di reclusione. Al suo fianco, la moglie Giovanna Casagranda e il fratello Pietro Battaglia. Mario Giuseppe Nania è visto dagli inquirenti come il “braccio armato” dell’organizzazione, e anche lui ha ricevuto una condanna significativa, con un totale di undici anni e otto mesi.
Gli altri imputati, Demetrio Costantino, Antonino Quattrone, Domenico Ambrogio e Federico Cipolloni, hanno una parte rilevante nel processo, con pene complessive che, nella sentenza di primo grado, ammontano a 76 anni di carcere. Il numero cospicuo di anni di reclusione proposti testimonia la gravità dei reati contestati e la volontà della magistratura di combattere con fermezza le attività mafiose nel territorio.
Posizioni delle parti in causa
Durante la prima udienza, avvenuta la settimana scorsa, Maria Teresa Rubini, sostituto procuratore, ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in primo grado. Parallelamente, i legali delle parti civili, tra cui i rappresentanti dei sindacati Cgil e Cisl del Trentino, hanno espresso sostegno alla richiesta dell’accusa, evidenziando l’importanza di mantenere ferma la posizione contro la mafia e il lavoro sfruttato.
Questi legali rappresentano vari enti, inclusa la Provincia di Trento e l’avvocatura dello Stato, a difesa degli interessi di cittadini e lavoratori coinvolti. Le associazioni Arci del Trentino e Libera hanno partecipato attivamente al processo, spesso unendosi alle rivendicazioni per giustizia e rispetto dei diritti fondamentali. Al contrario, i difensori degli imputati hanno chiesto l’assoluzione per i loro assistiti, accusando l’accusa di voler travisare la realtà dei fatti.
Il processo continua a focalizzarsi su dettagli fondamentali che potrebbero influenzare il risultato finale, segno che la lotta contro l’infiltrazione mafiosa in Trentino è ben lungi dall’essere conclusa. Ogni udienza rappresenta un passo significativo nel conteggio di una fase giuridica intensa, ricca di spunti e sviluppi che rivestono un’importanza cruciale non solo per gli imputati ma per tutta la comunità locale.